L’occasione che il Fintech offre al sistema bancario italiano per cambiare pelle ed allinearsi in parte a quelli che sono i nuovi trend internazionali è chiaramente una considerazione che incomincia ad essere condivisa da quasi tutti gli operatori del settore. Però, abbiamo anche scritto come parte del contesto bancario, specialmente quello dimensionalmente medio/piccolo, mostri ancora una sorta di resistenza al cambiamento che deriva o dalla (falsa) credenza che alla fine tutto cambi per non cambiare affatto o dalla scarsa visibilità prospettica da parte del management su come effettivamente cambiare. Nelle mie esperienze professionali ho visto la presenza di un mix delle due cause, anche se sempre più spesso il problema è soprattutto di natura operativa. Esso è legato alla impossibilità di mettere in essere economie di scala e di scopo, ma anche relazionali, che possano almeno dare un avvio al cambiamento. E questo cambiamento è chiaramente necessario ‘da ieri’, per usare un po’ di gergo anglosassone. E vediamo perché.
Che il nostro sia un sistema ‘bancarizzato’ non è certamente una ‘notizia’; cosa ben nota, anche se forse troppo spesso ci dimentichiamo della dimensione del fenomeno. Ce lo ricorda però l’ultimo Report on Financial Structure della BCE dove si riporta anche la dinamica del rapporto popolazione/filiale nei diversi Paesi dell’Area negli ultimi anni (Fig 1). L’Italiana è quartultima, quindi ancora con una notevole presenza di filiali sul territorio e, al di là di alcuni Paesi che hanno veramente fatto molto in termini di chiusura di filiali (come Irlanda e Olanda), in termini relativi anche Germania, Spagna e Portogallo hanno fatto meglio dell’Italia.
Fig. 1. Fonte: Report on Financial Structure – BCE
Non è neanche una novità che, oltre ad essere bancarizzato, il nostro sia un Paese anche estremamente bancocentrico. La Fig.2 riporta la composizione dell’attivo delle principali banche dei Paesi Europei come evidenziato nell’ultimo risk dashboard disponibile dell’EBA.
Fig. 2: Risk Dashboard – EBA
L’incidenza relativa dei crediti (nominali) sul totale impieghi nelle banche italiane è a oltre il 68%, contro il 61% della Francia ed il 55% della Germania (le due economie che più ci assomigliano per dimensione e struttura).
Tanta ‘presenza di credito’ nel nostro Paese non è stata sempre associata ad una grande efficacia ed efficienza nella valutazione e nella gestione del credito. In Figura 3, sempre estratta dal Risk Dashboard, si trova la fotografia aggiornata dell’incidenza dei crediti deteriorati per i diversi Paesi.
Fig. 3: Risk Dashboard – EBA
A fronte di una incidenza media del 4% dei crediti deteriorati nell’Area e nonostante le recenti ‘cure da cavallo’, l’Italia presenta ancora una incidenza dei crediti deteriorati dell’11% circa (14,5% secondo l’ultimo Rapporto sulla Stabilità Finanziaria di Banca d’Italia), contro il 2% della Germania e il 3.1% della Francia. E non mi si venga a dire che è tutta colpa della crisi finanziaria. Piuttosto io considero la recente crisi come una miccia che ha acceso una montagna di dinamite che è stata creata nel tempo grazie ad eccessi creditizi sia in termini di volumi che di concentrazione a partire dalla fine degli anni ’90.
Inoltre, in tabella 1 riporto i tassi effettivi sui prestiti alle imprese applicati dalle banche italiane dal 2016 a oggi.
Tabella 1: rielaborazione su dati Banca d’Italia
Quello che si nota chiaramente è una diminuzione nel periodo dei tassi effettivi su tutte le tipologie di prestito, anche al di là di quello che è stata la remunerazione indiretta delle operazioni TLTRO della BCE. Anzi, proprio tali operazioni hanno probabilmente spinto molte banche a proporre operazioni di finanziamento a tassi molto aggressivi. I dati medi ci mostrano ad esempio come in due anni (dal primo trimestre 2016 al primo trimestre 2018) i tassi effettivi sui prestiti a scadenza siano scesi di quasi 70 punti base, quasi un punto percentuale per le linee di credito a revoca e 40 punti base per le autoliquidanti. Nello stesso periodo il rendimento del BTP benchmark decennale è passato dall’1,37% al all’1,96%. In sostanza, a fronte di maggior rendimenti dei titoli di Stato che evidenziano un cambiamento di stance di politica monetaria, insieme ad un maggior rischio sovrano, le banche continuano ad applicare tassi molto bassi e che poi sono tanto più bassi, tanto maggiore è l’importo dell’affidamento. Questo ultimo fenomeno difficilmente riflette un minore rischio del prenditore al crescere della dimensione. Tutto ciò non è mai stato provato né nelle modellistiche, né empiricamente. Ad esempio, in tabella 2 riporto i dati Banca d’Italia sui tassi di deterioramento annuali dei prestiti alle imprese e sono più o meno costanti a prescindere dall’importo.
Tabella 2: rielaborazioni su dati Banca d’Italia
Piuttosto, questa tendenza di avere tassi più bassi al crescere dell’importo affidato riflette un maggior potere contrattuale da parte del prenditore, con il piccolo problema che il pricing del credito non può dipendere quasi esclusivamente dalla dimensione della ‘fornitura’. Le banche sono ‘fornitrici’ di un bene fungibile per eccellenza che si chiama denaro, ma in questa maniera, dato anche il sovradimensionamento dell’offerta, si producono delle distorsioni allocative di non poco conto. Questi temi saranno oggetto di futuri approfondimenti, ma una cosa è certa. Almeno sul credito alle imprese, in questo contesto congiunturale il modello non regge più. Non si sostiene non solo per la cattura informativa dei prenditori sul ‘pricing’ all’aumentare della dimensione, ma anche per il contesto normativo che sta cambiando continuamente. Basti pensare all’addendum BCE e al calendar provisioning proposto dalla Commissione Europea (oggetto di discussione a Settembre e si spera in una sua mitigazione grazie all’intervento del Parlamento Europeo).
Di seguito in tabella 3 riporto i gradi di copertura previsti nei due calendar provisioning proposti.
Tabella 3: calendar provisioning BCE e Commissione Europea
Di seguito riporto anche l’estratto dall’ultimo Rapporto sulla Stabilità Finanziaria di Banca d’Italia sulla fotografia del credito deteriorato in Italia.
Tabella 4: Estratto dal Rapporto sulla Stabilità Finanziaria nr I 2018
Il problema, chiaramente, è nelle rettifiche di valore che ora sono differenziate per status segnaletico, mentre il calendar provision non distingue, punto e basta.
Nel caso di scaduti, oggi mediamente le banche italiane rettificano al 21%, mentre il calendar provisioning proposto dalla Commissione Europea prevede per il non garantito (unsecured) un bel 35% alla fine del primo anno. Quindi per i nuovi scaduti che si origineranno dai nuovi contratti, vi sarebbe un gap medio del 14% da colmare. Ad esempio, per 100.000€ di credito deterioarto non assistito da garanzie eligible, si genererebbero 14.000€ di costo in più.
In tabella 5 riporto il nuovo credito a saldi medi liquidi che dovrebbe essere fatto per recuperare questi 14.000€ in termine di margine di interesse, dati i livelli medi per il primo trimestre del 2018, così come riportati in tabella 1 ed opportunamente decurtati del costo medio di raccolta. Si riportano i nuovi impieghi da fare a seconda che la rettifica di valore si verifichi nel primo, secondo, terzo o quarto trimestre.
Tabella 5: rielaborazioni dell’autore su dati Banca d’Italia
Quindi, ad esempio, 100.000€ di chirografo scaduto nel primo trimestre richiederebbe più di 700.000€ di nuovo credito impiegato per un anno per recuperare il costo addizionale generato dal calendar provisioning….più di 3.000.000€ di nuovo credito da impiegare nell’ultimo trimestre se la rettifica di valore si determina a fine anno.
Sono numeri pesanti e non si può affrontare il problema pensando di fare solo credito controgarantito, altrimenti si cambia mestiere e si fa il monte dei pegni invece che banca. Semplicemente deve cambiare la value proposition delle banche in merito al credito alle imprese in Italia. In questo contesto, e soprattutto in quello prospettico, la vera crescita passerà per un minor credito. Dovranno cambiare le ‘catene del valore’ ed il Fintech può essere di aiuto in questo. Le banche dovranno trasformarsi da intermediari di credito in intermediari di relazione. Meno credito direttamente erogato e maggiori accordi con i nuovi operatori del Fintech per i diversi servizi, anche creditizi. O fare da consulenti, sfruttando sia il nuovo contesto regolamentare che sta emergendo e che potrebbe trovare parzialmente impreparati alcuni operatori, ma anche capitalizzando la relazione che finora hanno tenuto (ma spesso subito) con il cliente. Questo richiede vision da parte del managment bancario e competenze lungo la filiera, ma sinora, soprattutto nelle banche medio-piccole, questi due elementi sembrano ancora non essere adeguatamente sviluppati.